73esima edizione Premio Michetti Figura,ae l’immagine delle immagini
Homo sive pictura. L'umanesimo pittorico di Roberto De Santis.
Nunzio Giustozzi. 2022
Per Roberto De Santis misura di tutte le cose è l'uomo. La figura emerge icastica
a descrivere lo spazio oscuro nei formati scelti degli anni ottanta, un luogo in cui
una pittura perfetta sa indagare ogni confine della percezione, perché niente
esiste che non appaia all'individuo esemplare.
Al termine della compiutezza, la materia fluida traduce visivamente
sensazioni variabili negli infiniti effetti dell'espressione e del gesto, con
un'energia vitale che solo un disegno impeccabile sa fermare e cogliere come
restituzione immediata del pensiero. Nei paradigmi olografici dell'estetica
contemporanea le stratigrafie create dall'artista trascorrono dal passato
‒ con la conservazione, anzi l'affioramento, di tecniche consumate (buon fresco,
olio, acquaforte, finto marmo, lacche) ‒ al presente ‒ con la sperimentazione dei pi.
moderni supporti plastici (duri, molli, elastomerici, fosforescenti) e, nella produzione
pi. recente che in mostra si presenta per la prima volta, di cariche minerali o
vegetali della terra di Sicilia ‒ in diaframmi apparenti che modulano l'intensità della
luce e delle cromie potenti, naturali o tipografiche, in un vuoto attraversato dal reale.
Sovrapposizioni e dissolvenze propongono talvolta in simultanea l'illusione
ottica di più immagini a suggerire un'evoluzione dinamica, temporale; talaltra
la figura si imbeve dello spessore della materia stessa dell'opera d'arte e vi
sprofonda concedendosi raramente all'osservatore, solo da uno speciale punto
di vista e con una particolare condizione luminosa, che egli deve saper ricercare
per essere appagato da quella misteriosa visione; altrove si insinua l'avventura
della morte dell'anima, solenne e assurda. Le superfici tormentate, sempre più
percorse da materici sollevamenti, taglienti fratture, piene di lacune e di lacerti
tenuti ancora per miracolo insieme da un reticolo di fibre organiche, destinate
inesorabilmente a deperire, diventano cos. metafora tragica di un'esistenza
precaria, preda dell'aggressività del nulla. Di converso, la serie di volti, di
uomini, di bambini, le bizzarre illustrazioni zoologiche, provenienti da prototipi
archeologicamente ripescati nelle cartelle dei lavori di un tempo, vengono
replicati in positivo e negativo secondo un nobile esercizio retorico che si carica
di una forza magnetica inaudita, capace di rivelare la verità dietro la finzione.
Roberto De Santis
l'ultimo tenebrista.
Gennaro Avano, quotidiano Napoli, 24 giugno 2019.
Nel segno del caravaggismo, e poi pregna
di mentalità fortemente barocca, la vita
del pittore Roberto De Santis è segnata
da un erramento straordinario e inverso
rispetto ai flussi tipici del nostro tempo.
Parte infatti dal Centro Italia questo artista,
nato nel 1956 a Fermo, nel Piceno
Palmense, formato nella più tipica accademia
locale, sotto Giuseppe Pende, noto
artista marchigiano, e poi alla scuola di
pittura di Macerata. Spirito vivace, attratto
dal Tenebrismo, che è la cifra pittorica
caratteristica del seicentismo meridionale,
ancora giovinetto viene a Napoli e vi
trascorre lunghe estati, alla ricerca della
ritrattistica dei Ribera, dei Falcone, dei
Rosa, tra Capodimonte e collezioni private,
presso le quali abilmente sa introdursi.
Vive negli anni ‘70 le sulfuree atmosfere
flegree ove guadagna lo pseudonimo di
“Marchiggia” e, pur ritrovando di frequente
i luoghi nativi, rimane a lungo
ospite d’una ricca e liberale famiglia bacolese,
a cui non sfugge il talento del giovane
provinciale e già ne stima il valore.
Presto vengono importanti commissioni
di facoltosi mecenati d’ogni parte del
mondo, commissioni che si estendono
anche agli ordini religiosi che intendono
farsi rappresentare da una cifra che non
trovano nel nostro tempo.
Tra le opere più importanti una “Conversione
di Sant’Agostino” per i Padri Agostiniani
Scalzi, collocata presso il Convento
della Madonna della Misericordia
a Fermo, una figura chiarissima e tesa
che si staglia su uno sfondo scuro, sporta
da una terrazza bianchissima, un quasi
quadrato, che ne impedisce la visione intera.
È tale l’intensità che sprigiona la tensione
del Santo da meritare numerose pubblicazioni;
su tutte quella della prestigiosa
Oxford Guide (O.G. to the Historical Reception
of Augustine Vol.3, Oxford University
Press Editor 2013). E la tedesca
Reihe Der Neue Pauly (Historische Gestalten
der Antike Rezeption in Literatur,
Kunst und Musik. Vol. 8 ) che lo colloca,
per lo stesso soggetto, niente meno che
accanto a Rubens.
La sua indomita attrazione verso la cifra
più profonda di un meridionalismo
che è categoria del pensiero, vocazione
filosofica a una bizzarria asciutta e austera,
non si placa con la maturità. Dopo
aver solcato per molti anni ancora le vie
dell’intramoenia napoletano, varcando
ogni cortile e assumendo le più recondite
suggestioni misteriche e simboliche, De
Santis, ripercorrendo, da buon tenebrista,
la via caravaggista parte alla volta di
un sud più profondo, persino più magmatico
di Napoli. E grande sarà lo sgomento
degli ambienti dell’arte del Centro e del
Nord Italia, in cui s’è ormai guadagnato
la fama di prestigioso artista.
Stabilisce così una nuova residenza in
Sicilia, presso Catania, dove persegue la
medesima ricerca delle forme barocche,
ora intagliate negli scuri piperni e nei basalti
etnei. Ivi si dedica quindi alla docenza
e dall’Isola attende qualche commessa
oltreoceanica con opere costruite sulla
centralità di figure scarne, tendinee, che
animano un onirico barocco esistenziale,
libero da ridondanze.
Raro essere ammessi presso la sua residenza,
difficile ottenere interviste, parla
per lui solo l’opera, distante dall’ermetismo
concettuale in voga negli anni ‘80, e
poi dall’edonismo tardo novecentesco
che ha affollato la scena dell’arte.
In attesa dunque di un incontro richiesto
da tempo, lasciamo che sia la descrizione
di Nunzio Giustozzi, noto storico dell’arte
e curatore delle maggiori mostre italiane,
a riferirci della sua arte: «misura di
tutte le cose è l’uomo. La figura emerge
icastica a descrivere lo spazio oscuro
[...], un luogo in cui una pittura perfetta
sa indagare ogni confine della percezione,
perché niente esiste che non appaia
all’individuo esemplare».
Augustine beyond the book. A cura di Karla Pollmann & Meredith Jane Gill.
Brill Editor Leiden NL Boston USA 2012.
The Limits of Autonomy: Augustine over the Edge.
Karla Pollmann.
In 1986, the Italian artist Roberto de Santis was commissioned by the Patres Agostiniani Scalzi of the province Ferrarese-Picena to produce a painting
on the occasion of the 1,600th anniversary of the conversion of Augustine. De Santis painted an oil-on-canvas, measuring 55 x 55 cm, with the title Conversione di Sant'Agostino. The work was first displayed in an exhibition at the Galleria di S. Agostino, Rome, in 1986; it is now on permanent display at the 'Convento Madonna della Misericordia in Fermo, the home on the Adriatic coast of the artist himself. To my knowledge, this piece of art has never been the object of scholarly investigation.
The painting (fig. 5) is structured in a clear, even austere manner: it is entirely in black, with the exception of one quarter of its area in the left foreground which is white, looking a bit like a white-washed wall. On the top of this wall's right upper edge, which forms precisely the middle of the painting, is the naked torso of a middle-aged, white European-looking male, leaning or crouching, with a sinewy and muscular body and the veins of his strong forearms clearly visible. His hands are clutching the white wall, his upper body is tensely leaning forward, and his thick neck is extended. The neck supports a face in profile whose eyes are intently peering towards the right side of the painting, clearly beyond a point visible in the painting itself. The pro file of the face has strong, clear-cut features, clean-shaven, with very little hair on the head. Ali in all, the physiognomy is characteristic for the artist, as this shape of head and facial features are also common to more recent works of his. Light is shining onto the white wall, as well as onto the torso and face of the intent man-the distribution of shadow and light makes it clear that the light's source comes from the direction of the man's gaze, that is, from a source outside the picture which is therefore invisible to the spectator. The light is quite strong, as the man has to frown to protect his eyes, such that they are hardly visible. On the other hand, the light is not so strong that he cannot bear it at all and must divert his gaze.
The tense posture of the entire body as far as it is visible, in combination with the perched head and the eyes intently fixed on an invisible horizon, suggests an inner attitude of the highest mental concentration. The abstract, mathematical design of the picture seems to signal that this is the archetypical or "formulaic," indeed permanent situation of the person depicted, possibly representative of the situation of all human beings. The nakedness of the body, presenting the primeval human state, adds to
this timeless, universal impression These features correspond strongly, of course, to Augustine's self-characterization in the Confessions of himself as a soul constantly searching for truth, something that he, and many of his readers since, perceived to be the fundamental situation of every believer. Moreover, the person in the painting is alone. Thus, if we take this man as a human archetype, then the human person is here characterized as an individual, possibly the ultimate individual, completely dependent on him or herself and not under someone else's visible authority. One could even surmise that, perhaps, this person does not care about authority over others either. In a way, the figure represents utmost autonomy while, at the same time, the striving to pursue something out of visible reach. Thus, human autonomy is defined as something that, by necessity, has to relate to an entity beyond its reach; this could be, for instance, one's own true and ultimate goal, universal understanding, or personal salvation. The visual medium reflects this in a mis-en-abime, as the situation of the painter and the spectator is exactly the same, wrestling with the inscribed limits of the medium which by necessity always points at something it cannot fully depict.
The spectator cannot but engage with this intense depiction in wondering whether this is the moment before conversion or exactly the moment when it took place. The striking contrast between severe physical tension and the almost trance-like projection of the gaze into the world outside the painting, and presumably also beyond the spectator, makes this a remarkable and original achievement in visualizing the mental event of conversion, one that is notoriously difficult to represent. Tradition normally elects the garden scene with the tolle lege mantra as the best solution to this conundrum. De Santis has chosen a more modern approach, with no direct reference to anything supernatural, let alone angels or God, which also allows for non-Christian interpretations of or meditations on the artifact. At the same time he renders the surroundings entirely abstract, which hints in an unobtrusive way at the internal, timeless and universal quality of the depicted event. His rendering reminds one of the sculpture of The Thinker (1879-89) by Auguste Rodin. The Thinker also appears to make the effort of thinking visible, not only through features, such as his knitted brow, his distended nostrils and compressed lips, but with every muscle of his arms, back, and legs, with his clenched fist and gripping toes. Also like de Santis' Augustine, The Thinker is male, naked, and displays a muscular anatomy, thereby also externalizing mental concentration through physical tension. But in telling contrast, Rodin's sculpture is turned towards itself, reflecting inwardly and seeking its point of reference within its own physical form, whereas de Santis' Augustine
while still very much present in his physicality, transcends himself and, to a degree, even the painting and its spectator.
Conclusions: What's in a Visual Medium?
In our case the nature of transmediality is illuminating in so far as Augustine, recognized as an outstanding figure, is memorialized by being transferred into painting. The advantage is also clear: immediate visual effect, characterization of the human personality, highlighting what one finds important in him. The spectator requires at least a minimal background to grasp the message which is constructed by the artefacts' interaction with existing iconographic tradition. But this still leaves some questions open. For instance, in the case of the Lateran fresco, is it Augustine who becomes a pagan-style intellectual with a Christian overlay, or is it indeed the case that a pagan intellectual becomes "Augustinified"? Perhaps the point may be both, revealing the distinctive quality or potential in the act of representation. Likewise, with Vittore Carpaccio's famous depiction of Augustine in his study - is Augustine here turned into a humanist or are all humanists subsumed under the rubric of the "super-humanist" Augustine? In the case of the Lateran fresco, it is the use of intermediality which helps us answer these questions; the inscription in the form of an elegiac couplet serves as an identifier and marker. This is certainly also true for modern scholarship on the work which to a considerable degree has relied on this inscription in identifying the intellectual persona with Augustine.
Life cycles are more complex and simpler at the same time, due to the amount of visualized information that they offer. Accordingly, their focus can vary: (i) they focus on the institution of an "Augustinian" Order like the Hermits, "documenting" their origin as going back to Augustine; (ii) they convey the Order's teaching program; (iii) they popularize a body of orthodox knowledge; (iv) they advocate rituals of the Church and what they may mean for an individual; (v) they proclaim the efficacy and immediacy of a spiritual legacy. Generally, the symbolic, the immediate, and the universal are central. Accordingly, intermediality is less important and appears in the form of scant inscriptions, but occasionally Latin or bilingual inscriptions are present in order to popularize or moralize the depicted episodes; sometimes they can have an important function that even seems to run counter to the intent of the images.
In the case of our contemporary painting, full understanding is only possible if one knows the Confessions as its reference text, as well as at least the broad outlines of a tradition that interprets the Confessions as portraying Augustine as a truth-searching individual with a propensity towards the transcendent and existential. In addition, other elements of Augustine's thinking are in accord with the painting. Ultimately, the successful meditation on and understanding of the painting's message are only guaranteed through external markers, such as the context of the first exhibition or the title of the painting, in addition to a certain background knowledge of Augustine's thought, while at the same ti me allowing universal, also non-Christian reflections.
In terms of authority all these visualizations serve to underline the charismatic authority of Augustine, which in return also benefits the sponsors of the artifacts in question. People not yet familiar with this authority become initiated, and thus his authority is reaffirmed. Visual representation has an enormous potential for impacting on the viewer through sensual perception that complements, enhances, interrogates, or even contradicts the written medium they have as their basis. The visual arts guarantee immediacy, actuality, and relevance for the present; they can universalize, symbolize, "existentialize," modernize, and serve to realize a connection to the august and remote past. Moreover, art usurps, puts the image between-in our case-Augustine as a textual thinker and the spectator, suggesting an authenticity which does not exist in relation to the historicity of the depicted object, but does well exist in relation to the viewers and what they make of the visualization. Viewer response theory during the last two decades has re-emphasized the importance or micro- and macro-surroundings
of the viewing conditions in this intricate process. There are of course also limits
to the possibilities of visualizing Augustinian concepts, especially as Augustine himself
was noteworthy for his lack of interest in the visual. But such considerations have never
stopped his reception.
InOpera 2010.
Cecilia Renzi.
La sua ricerca artistica è relazione continua tra l'uomo e il suo spazio, un percorso che nel tempo si è formalizzato nell'essenzialità della materia pittorica, inducendo in trasparenze che preludono all'apertura di spazi vuoti dove il soggetto si manifesta quasi emergendo plasticamente rispetto allo sfondo.
Nell'opera presentata, dedicata a Padre Matteo Ricci, lo spazio lasciato vuoto e riempito solo cromaticamente di luminoso azzurro è preponderante rispetto alle aree occupate dal motivo plastico. Tale valorizzazione del vuoto rinvia alla concezione di fondo del buddhismo e dal taoismo, secondo cui la liberazione della mente (mushin) è uno dei fattori fondamentali nel processo di realizzazione spirituale.
Il vuoto orientale è reale, concreto, da non confondersi quindi con l'inesistenza; si tratta di uno spazio autonomo, affrancato, apparentemente incoerente. Una cavità ricolma di nulla, ma pronta e disponibile a ricevere quanto a donare. Quando i pensieri si diradano o il loro flusso rallenta sopraggiunge una pausa, una discontinuità e un'ordine non immediatamente riconoscibile per la mente umana, ordine che potremmo definire, con Kandinsky il "suono interno", l'"anima della forma".
Solo quando ci saremmo distaccati dalle cose e poi nutriti di silenzio potremmo
cogliere il movimento della quiete e l'armonia del tutto relazionandoci in modo
autentico con l'altro.
Lo specchio degli enigmi o la pittura come metafora.
Alessandro Tempi.
La pittura figurativa sembra permanere oggi, accanto all'opera ed al balletto, come ultimo baluardo di quel "buon gusto" che, come direbbe Alfredo De Paz, è più una questione di ethos che di estetica. Neanche le tendenze iperrealiste di questi ultimi decenni sfuggono a questa sorte, rinnovando il seducente equivoco di una "pittura che si può capire" grazie alle simmetrie di senso che con prepotenza vi si instaurano. L'idea che vi possa essere qualcos'altro al di là o al di fuori della conoscibilità immaginale (o iconica) va a coincidere con qualcosa di estraneo e di inconcepibile ed in questo modo la pittura figurativa viene ricondotto ad un tardivo principio imitativo, come se il termine di riferimento dell'artista continuasse ad essere unicamente la natura od il mondo sensibile. Eppure vi è da sempre uno scarto irriducibile in questa pretesa specularità fra pittura e natura ed esso viene segnalato dal passaggio fra un ordine dato, esterno all'uomo, ad un ordine culturale che esibisce chiaramente le impronte dell'operare umano. Con la modernità questo scarto diventa maggiormente pressante: da Cezanne a David Salle (tanto per non fare nomi a caso) si stende un percorso che porta l'arte da una piena autonomia creatrice ad una disillusa consapevolezza della propria artificialità
(e del proprio essere linguaggio fra i tanti dell'universo comunicativo moderno).
È in questo stesso percorso che la pittura si libera tuttavia delle simmetrie col mondo sensibile per scoprirsi sguardo essa stessa.
Mi è sembrato opportuno premettere queste osservazioni di carattere generale ad introduzione di un possibile discorso su Roberto De Santis perchè ritengo che per parlare della sua pittura sia prioritario sgomberare il campo almeno da due equivoci: primo, che la sua pittura si esaurisca nella resa figurativa dei suoi soggetti, in quel loro asettico perfezionismo fotografico così ossessivamente ostentato; secondo, che il codice di questa pittura rimandi ad una pretesa classicità delle forme.
Quanto al primo di questi equivoci, va detto con molta chiarezza che quello di De Santis è, al di là delle apparenze, un atteggiamento apertamente antinaturalistico, riconoscibile nell'incongruità combinatoria degli elementi costitutivi delle immagini (contraddistinte solitamente da un soggetto ricorrente - un vero e proprio "antropotipo" di natura virtuale - che si staglia su uno sfondo cromatico cangiante). Non vi è insomma richiamo alcuno al mondo sensibile, ma uso calcolato e razionale di elementi figurativi, geometrici e cromatici che rimanda semmai a certi climi rarefatti dell'astrattismo. Chiarire il secondo equivoco implica chiamare in causa l'anticlassicismo di questa pittura, la cui esplicita ed a tratti derisoria incongruità iconografica denuncia un totale distacco dagli stereotipi posturali e scenici della pittura classica, mentre l'opzione per una rappresentazione rigorosamente ortogonale chiude ogni possibilità di drammatizzazione e/o di personalizzazione, tipiche invece del classicismo pittorico (penso a David, ad esempio).
Credo che sia attraverso queste precisazioni che si può avvicinare senza fraintendimenti (siano essi estetici o di ethos) il modo in cui egli si situa nei confronti della modernità, vale a dire nei confronti di un approccio analitico ed autoriflessivo al problema dell'opera d'arte.
Ed al riguardo, credo non vi sia miglior via per illustrare questo possibile rapporto che quella di riferirsi ad un quadro di De Santis dal valore emblematico: "L'uomo che punta il dito verso il centro". Qui sono senz'altro rintracciabili consistenti indizi che riconducono ad un impianto moderno dell'opera d'arte: la forte e manifesta dimensione onirico-surreale del soggetto, con la sua incontenibile ed inquietante ambivalenza fra dato sensibile e dato extrasensibile (tipica appunto del sogno) che apre ad una sorta di virtualità atecnologica
(la perfezione riproduttiva di qualcosa "che non esiste" ed è arbitrariamente posto "come se"); una rarefazione degli elementi compositivi assimilabile per rigore ad una specie di ascesi astratta (ed il pensiero va a Mondrian); infine, un'estrema e deliberata spersonalizzazione del dato figurale, ma tale che proprio nel mondo ortogonale di rappresentazione ricerchi una sua universalizzante anonimità che funzioni da regola e condizione insieme d'oggettività, per cui ciò che d'acchito sembra apparentarsi all'iperrealismo, poi se ne ritrae decisamente per questa sua innata ed inestinguibile ricerca di una norma costruttiva (di immagine e nel contempo di senso, ovviamente). Accanto a questi indizi formali, vi è tuttavia in quest'opera anche un nucleo contenutistico pienamente inseribile in una linea di riflessione moderna sull'arte e che si potrebbe banalmente enunciare nella seguente interrogazione: cos'è il centro nel problema della rappresentazione? Attraverso un'allegoria di vaga intonazione morale (questa sì, indubbiamente antimoderna), l'opera assume, in altre parole, il compito di rendere visibile un percorso di senso che l'osservatore è chiamato a compiere per raggiungerne il nucleo originario sfuggente e metafisico (in senso platonico, è chiaro) che è sempre, in De Santis, l'enunciazione od il porsi di un problema conoscitivo che solo la pittura, nel suo caso, sa placare ed ordinare dentro una cornice di senso e di forma compiuti.
Si sarebbe tentati di concludere che per questa pittura senso vada a coincidere con forma e viceversa (intesa, quest'ultima, proprio nella sua accezione classica alla Focillon, tanto per intenderci), ma sarebbe poi così lontano dal moderno il tentativo di annettere alla pittura una capacità di linguaggio che la rende veicolo referenziale del pensiero? Non è forse la capacità o consapevolezza di questa linguisticità che conduce la pittura sul terreno del moderno?
Simili interrogativi non solo depongono per la complessità dell'impianto concettuale di questa pittura, ma testimoniano anche di una personale ricerca estetica in cui il principio - non sapere del resto quale altro vocabolo meno perentorio usare - della nettezza, della nitidezza formale (da contrapporre appunto a tutto ciò che ad essa sembra sfuggire) non va ad alimentare alcuna specularità col mondo oggettivo, ma si attesta come strumento conoscitivo di tutto ciò che ordisce la trama delle immagini: il pensiero e le idee.
Il fatto è che, per De Santis, la pittura vale come metafora di un costante esercizio conoscitiva condotto senza alcuna scorta di fondamenti forti sulle cause e sui fini, ma salo con un bagaglio minimo di strumenti linguistici adoperati con lucida e tagliente parsimonia per misurare gli enigmi sfuggenti del reale. In quanto specchio di questi enigmi, la sua pittura non può far a meno di suggerire nuove simmetrie, ma nel contempo essa ci rivela, grazie all'ironia inquietante che le contorna, quanta ingannevoli queste possano essere. In fin dei conti, sembra dire De Santis, sono le immagini che devono servire le idee. E non viceversa. Anche quando queste si presentano sotto forma di enigmi.
Conversione S. Agostino.
P. Luigi Pingelli.
Il soggetto pittorico per essere colto nella sua originalità richiede di scorgere con occhio critico i segni di una simbologia, che per quanto astratta, si rivela profondamente allusiva. L'autore non rinuncia con evidenti accorgimenti espressivi ad inquadrare sinteticamente il momento illuminante nella conversione e gli ulteriori riferimenti alla personalità di Agostino. La figura del santo, che nella sua nudità, segno di una condizione morale, emerge verso la luce della Verità sottolinea il momento decisivo della conversione e situa Agostino nella dimensione di una vita nuova.
Lo sviluppo dinamico della ricerca personale si coglie negli elementi che caratterizzano l'identificazione di alcuni attributi di questo Dottore della Chiesa attraverso un lucido distacco dalla tipologia tradizionale.
La qualifica di Agostino quale uno dei quattro Dottori della Chiesa occidentale viene evidenziata nel quarto di spazio reso concreto come solido appoggio per la contemplazione della Sapienza e l'indagine teologica. La mano che indica il centro del quadro, il quale si proietta sul cuore di Agostino, centro del proprio fervore, pone in rilievo la profonda carità del santo, altrimenti resa col cuore ardente. Lo sguardo proteso ad altezza d'uomo e verso l'orizzonte della dimensione terrena e della storia mostra Agostino come attento scrutatore dei segni della presenza e della provvidenza di Dio.
L'immagine pittorica nella sua lettura globale offre un'indagine soggettiva più vasta e racchiude quindi l'esperienza dell'itinerario intellettuale e spirituale che Agostino rivela soprattutto nel libro delle Confessioni.